L’AOR in Marocco

La prima Farmer Field School

 

Grazie alla collaborazione con GDF (Global Diversity Foundation), nata all’interno del progetto “Enhancing the resilience of High Atlas agroecosystems in Morocco”, a dicembre abbiamo fatto visita a due piccole comunità agricole dell’Alto Atlante in Marocco, Imegdal e Ait M’hamed. Il primo è un villaggio di pochi abitanti incastonato tra le montagne ed accostato ai margini da un piccolo torrente che sgorga dalle alture vicine. Il secondo è un villaggio situato a est di Marrakech su un ambiente collinare nella provincia di Beni Mellal.

 

Il primo incontro era nato in aprile ed è stato fondamentale per valutare le possibili sfide agro-ecologiche da poter implementare nelle due comunità.

Difatti, nelle discussioni tra il team GDF, Deafal ed alcuni contadini, erano emerse alcune problematiche rilevanti che avevano particolarmente condizionato le ultime annate agricole dei villaggi, tra queste vi erano:

  • Carenza d’acqua durante la stagione secca
  • Scarsa conoscenza dei trattamenti biologici per il controllo delle patologie
  • Notevoli problematiche date dalle infestazioni da afidi
  • Mancato accesso ai servizi veterinari

In questo secondo incontro abbiamo voluto incontrare i contadini della comunità ed organizzare con loro una vera e propria “farmer field school” incentrata sulla comprensione generale del suolo, delle sue funzioni e delle sue componenti fisiche, chimiche e biologiche. Il primo passo verso una comprensione più olistica della pianta e delle sue interazioni col suolo e l’ambiente.

Abbiamo quindi condiviso il nostro lavoro svolto fin qui in Italia, contestualizzando ed introducendo alcune tematiche scientifiche che potrebbero aiutare a rendere più fruttuosa l’annata agricola e garantire un’alternativa valida agli ormai popolari input chimici.

Il primo passo è stato comprendere cosa è oggi la cultura agricola marocchina, per farlo abbiamo sfruttato appieno i lunghi viaggi di spostamento in macchina che ci separavano dalle comunità e dalle grandi città dove pernottavamo. Abbiamo potuto osservare le grandi potenzialità di un territorio come questo, gli alberi quando presenti sono maestosi, ricca è la biodiversità e molte sono le specie vegetali endemiche. Il clima, generalmente, è molto arido e caratterizzato da forti escursioni termiche tra il giorno e la notte, le giornate sono prevalentemente soleggiate e con quasi ora in più di luce in inverno rispetto alle nostre latitudini. I terreni sono geologicamente molto antichi, ricchi di minerali e dalla tessitura prevalentemente sabbiosa.

Incontrare i contadini del posto e poter dialogare con loro sugli aspetti a noi più cari come quelli del mantenimento e potenziamento della fertilità del suolo è stato davvero magnifico. Soprattutto se per farlo si sono evitate noiose lezioni teoriche e slides ormai sin troppo comuni negli insegnamenti occidentali.

L’economia principale delle comunità è basata sull’agricoltura e la dimensione produttiva è limitata a piccole superfici. Nonostante ciò, la necessità di soddisfare il fabbisogno alimentare interno ha permesso il diffondersi di coltivazioni perlopiù miste. Sopra il letto del rio nascono gran parte dei terrazzamenti coltivati, dove orzo, erba medica e fruttiferi fanno da padrone tingendo di verde il panorama roccioso.

Ogni metro quadrato è sfruttato saggiamente, e alla coltivazione principale (orzo, grano, erba medica) è intercalata quasi sempre la presenza di alberi da frutto (noci, mandorli, meli). In questo pattern altamente produttivo, la presenza dell’acqua rimane comunque un elemento fondamentale considerato il contesto semi-arido del alto atlante. L’opera di canalizzazione approvvigiona ogni parcella con l’acqua di scioglimento della neve d’altura e garantisce l’unico accesso sicuro e igienico all’acqua per le comunità.

Anche qui purtroppo ci siamo imbattuti nella triste realtà del cambiamento climatico, dai racconti dei locali, la portata del torrente sta diminuendo drasticamente di anno in anno, i villaggi a valle rischiano di dover fronteggiare una crisi idrica senza precedenti e già a dicembre il livello dei fiumi in gran parte del paese era calato di almeno due metri.

Ci è apparso quindi davvero impattante la possibilità di dimostrare sul posto, come la sostanza organica proveniente dai campi stessi, dagli scarti della cucina o dalle stalle, giochi un ruolo fondamentale per arginare i rischi colturali derivati dalla siccità o da crittogame sempre presenti all’angolo.

Riciclare questi scarti, che spesso rimangono malamente accumulati all’aria aperta o peggio distribuiti freschi, per migliorarli attraverso la tecnica del compostaggio. L’unica che può assicurare una stabilizzazione biochimica di ogni matrice utilizzata. Non ci siamo spinti a parlare di chimica e di microbiologia ma attraverso prove empiriche abbiamo dimostrato quali grandi vantaggi apporta la presenza del humus nel terreno. Come questo trattiene e infiltra maggiormente l’acqua, come migliori la struttura del terreno assicurando maggior ossigeno alle radici e come sia apportatrice di vita e di forme biologicamente attive.

Quasi sicuramente la loro osservazione diretta in campo gli aveva già fatto intuire le differenze tra un terreno organico ed un terreno poco organico, ma siamo sicuri che il nostro contributo abbia potuto far accendere qualche lampadina in più sulle possibilità derivate dall’utilizzo corretto della sostanza organica sui terreni.

Non vediamo l’ora di trattare il prossimo modulo dove porteremo tematiche come la fisiologia e la nutrizione della pianta, interverrà il nostro amico Ruben Borge di RockinSoil che cercherà di far comprendere quali segreti si celano dietro alle radici e come queste comunicano e si interfacciano con il suolo.

 

Alla prossima!